We’re used to considering the white cube of the art gallery as a neutral space, a tabula rasa to be filled in with new signs every time there is a new exhibition. But the most conscious artists realise that in actual fact the gallery is itself a medium, a space to be moulded to open a door onto what lies on the other side of the mirror: reality, the living, complex, magmatic, noisy, stinky world where there are no white walls. From Marcel Duchamp to Victor Burgin, from Robert Smithson to Olafur Eliasson, recent art history might be read as the history of the defeat of dualism inherent in western culture between interior and exterior, reality and representation, living space and institutional space. When they visited Guidi & Schoen gallery, Roberto Pugliese and Tamara Repetto were attracted by what waited beyond the threshold of the spaces made available to them, in a city made up of thresholds, in which a single step is enough to go from strong light to darkness, from big piazza to claustrophobic lane, from a sparkling “above” to a dark, corrupt, noisy but entirely human “below”. And they could not resist the temptation to bring what was out there into the gallery. But while the exhibition space is the realm of the visual par excellence, sight is not enough to represent complex reality when most things happen outside the light of the sun. There it is other senses that take over: touch, smell and hearing. After all, awareness of the senses which the pre-eminence of sight has made secondary in importance in western culture (to the point that some might find an art made up of sounds, flavours and smells quite revolutionary) is one of the factors that has inspired these two artists coming from very different places and backgrounds to work together on a number of occasions. Sounds and odours are of primary importance in Inside Outside, their exhibition project for Guidi & Schoen. The installation, filling the main room in the gallery, consists of seventy blown glass balls of different sizes, each of which contains the black cone of a speaker. The balls hang from the ceiling, each at a different height, on clear nylon wire, letting the big black wires that take the sound to the speakers fall onto the floor. This installation turns things around in a curious way: as we visit the installation, we do not find ourselves looking at the glass balls hanging from the ceiling, but at the jungle of alien flowers rising out of the floor, supported by thin black stems, with their single organ watching us and talking to us at the same time. They tell us about the street, about the tirelessly teeming city outside, and about the fact that we rush to them to see what they have to say. The sounds conveyed by the speakers are gathered in real time by a microphone outside the gallery and sampled by a computer which directs them to the glass balls in eighteen separate channels. The result is a sort of chit-chat which is both familiar and alien at the same time: familiar, because it is built on the basis of the sounds in the environment we left behind us when we entered the gallery; and yet alien, because this familiar sound (which we rarely listen to) is isolated, drawn to our attention, multiplied, spatially distributed in different areas and subjected to the tiny variations produced by the interaction of the cone with the glass ball, which becomes its sounding board. Dialogue between interior and exterior continues on a number of levels throughout the exhibition, creating an effect like that of Russian dolls, which never becomes an intellectual exercise but seems natural due to the strong emotional impact and immediate communicative power of the projects, and becomes an invitation to reflect on the porosity of these two realms, traditionally seen as opposites. In the same way, technology does not show off its muscles or astound us with special effects, but becomes the shortest and, paradoxically, the most natural way of knocking down the walls of the exhibition space and opening the doors to what the artists are most interested in: life, and our ability to understand and represent it.
Domenico Quaranta
Siamo abituati a considerare il cubo bianco della galleria come uno spazio neutro, una tabula rasa da riempire, di volta in volta, di nuovi segni. Gli artisti più consapevoli sanno che si tratta, invece, di un medium, uno spazio da plasmare per aprire una porta su ciò che sta al di là dello specchio: la realtà, il mondo vivo, complesso, magmatico, rumoroso, puzzolente e privo di muri bianchi. Da Marcel Duchamp a Victor Burgin, da Robert Smithson a Olafur Eliasson, la storia dell’arte recente potrebbe essere letta come la storia dell’abbattimento del dualismo, intrinseco alla cultura occidentale, tra interno ed esterno, realtà e rappresentazione, spazio di vita e spazio istituzionale. Visitando la galleria Guidi & Schoen, Roberto Pugliese e Tamara Repetto sono stati attratti da ciò che li attendeva al varco degli spazi messi a loro disposizione in una città fatta di varchi, in cui un passo è sufficiente per passare dalla piena luce al buio, dalle grandi piazze ai vicoli claustrofobici, da un “sopra” scintillante a un “sotto” oscuro, mefitico e rumoroso, ma tanto più umano. E hanno deciso di non resistere a questa attrazione, e di portare dentro il fuori. Ma se lo spazio espositivo è, per eccellenza, il regno del visivo, la vista non basta alla resa di una realtà complessa, che si svolge per lo più lontano dal sole. Lì, sono altri sensi a prendere il sopravvento: il tatto, l’olfatto, l’udito. Del resto, proprio la loro attenzione per quegli ambiti della sensorialità che il primato della vista ha reso, nella cultura occidentale, secondari (fino a far pensare a qualcuno che un’arte di rumori, sapori, odori fosse qualcosa di rivoluzionario) è stata uno dei fattori che ha spinto questi due artisti molto diversi per formazione e provenienza a lavorare insieme in diverse occasioni. Suoni e odori sono di primaria importanza in Inside Outside, il loro progetto espositivo per la galleria Guidi & Schoen. L’installazione omonima, che prende lo spazio principale della galleria, consiste di settanta sfere in vetro soffiato di diverse dimensioni, in ognuna delle quali è stato incastonato il cono nero di uno speaker. Le sfere pendono dal soffitto, ad altezze diverse, grazie a un filo di nylon trasparente, e lasciano ricadere verso il pavimento i grossi fili neri che portano il suono agli speaker. Questa scelta allestitiva ribalta curiosamente la situazione: visitando l’installazione, non ci troviamo di fronte a delle sfere che pendono dal soffitto, ma a una giungla di fiori alieni che si levano dal pavimento, sorretti da sottili steli neri, e con il loro unico organo ci osservano e, al contempo, ci parlano. Raccontano delle strada, della vita della città, del suo inesausto brulicare e del nostro accorrere alla loro presenza per sentire cos’hanno da dirci. I suoni veicolati dagli speaker, infatti, sono raccolti in tempo reale da un microfono posizionato all’esterno della galleria, e campionati da un computer che li indirizza alle sfere in diciotto canali separati. Ciò che ne risulta è un cicaleccio insieme familiare e alieno: familiare, perché costruito a partire dall’ambiente sonoro che abbiamo appena lasciato, entrando in galleria; e alieno, perché questo suono familiare (ma raramente ascoltato) viene isolato, fatto oggetto d’attenzione, moltiplicato, distribuito spazialmente in diverse aree d’ascolto e sottoposto alle microvariazioni prodotte dall’interazione tra il cono e la bolla di vetro, che diventa la sua cassa di risonanza. A fare da cuscinetto tra l’esterno della vita e l’interno dell’arte, interviene. Il dialogo tra interno ed esterno si ripropone a più livelli, con un effetto matriosca che non sfora mai nell’intellettualistico ma che anzi, grazie al forte impatto emotivo e all’immediatezza comunicativa dei lavori, viene vissuto come naturale; e diventa un invito a riflettere sulla porosità di questi due ambiti, tradizionalmente vissuti come opposti. Allo stesso modo, la tecnologia non mostra i muscoli e non ci stupisce con effetti speciali, ma diventa la via più breve, e paradossalmente più naturale, per abbattere le pareti dello spazio espositivo e per aprire le porte a ciò che più interessa agli artisti: la vita e la nostra capacità di comprenderla e raccontarla.
Domenico Quaranta